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ARTICOLO  TRATTO DA  "IL CITTADINO" DEL 12/11/2013 - l’intervista don peppino barbesta 
 
l’intervista don peppino barbesta 
Dalla Polonia rossa all’asilo di Jenin, da 60 anni in missione di solidarietà 
 

 

“Premio Barbarossa” 2013, don Peppino Barbesta ama considerare i suoi riconoscimenti come un regalo al suo incedere missionario. Una scelta, la sua, che non è mai venuta meno nella ormai lunghissima militanza sacerdotale (è prete dal 12 giugno 1954, quasi sessanta primavere a servizio di Dio), anzi paradossalmente si è irrobustita con il trascorrere dei decenni, sempre sostenuta da un robusto spirito di solidarietà. Classe 1931, 82 anni compiuti lo scorso 20 luglio, dopo la consacrazione ad opera del vescovo dell’epoca monsignor Tarcisio Vincenzo Benedetti, il graffignanino don Giuseppe Barbesta è stato vicario a Borghetto (settembre 1954), vice assistente diocesano di Azione cattolica (giugno 1961), vice rettore del Collegio Vescovile di Lodi (agosto 1963, parroco a San Martino Pizzolano (da agosto 1964 a novembre 1974: parroco a Secugnano (da novembre 1974 a luglio 1990) e Riozzo (da luglio 1990 a giugno 2006), ora collaboratore pastorale a Retegno (da settembre 2006). Don Barbesta, ammetta che lei è davvero un prete un po’ speciale... «Non esageri: sono in normalissimo prete di campagna che ama con passione la sua vocazione. Quando al mattino mi sveglio, le prime persone che mi vengono alla mente sono Ernesta e don Marino Morosini. Certo, vengo da una famiglia sana di carrettieri dove la regola cristiana era fissa di casa, ma mia nonna paterna Ernesta è stata la mia prima docente spirituale, pur senza mai fare cose filosofiche. Semplicemente non l’ho mai vista uscire di casa con il grembiule avvolto: teneva sempre dentro qualcosa da mangiare ed amava dirmi tutti i giorni: Vedi, Peppino, c’è sempre qualcuno che a fame. Nonna Ernesta aveva una predilizione per me forse perché ammiravo quel suo insolito modo di fare nel quale leggevo il Vangelo della carità: gesti che profumavano di solidarietà. Ogni tanto, aggiungeva un’altra massima: Ricordati che le bocche sono tutte sorelle, come a dire che non esiste una classifica. Il secondo personaggio della mia ispirazione è stato don Marino Morosini, davvero un sant’uomo, parroco di Graffignana del tempo: era un codognino verace di una bontà infinita e mi colpiva come predicava il Vangelo. Addirittura, in quella società senza punti di riferimento per la povera gente, lui diventava il notaio di tutte le questioni temporali, se ne assumeva la paternità togliendo dalle ambasce i poveri perseguitati. Questa cosa non la dimenticherò mai». Quindi, se ho ben capito, la sua vocazione religiosa ha avuto come ispiratori le due persone citate...«Mettiamola pure così. In realtà, sentendo dentro di me la voglia di fare il prete, mi sono chiesto, già in giovane età, che mi sarebbe piaciuto farlo seguendo quei due esempi, come peraltro l’intensa religiosità dei miei genitori. I quali, quando ho loro manifestato la volontà di andare in seminario, festeggiarono la notizia con grande clamore: feci loro un regalo gigantesco. Tenga conto che io ero il secondo di tre figli, il primo era già morto di meningite, poi c’era Teresina, mia sorella, la terza, che è ancora viva e vegeta. Si può immaginare quanto potevo contare nella mia famiglia dove ero diventato in pratica il primogenito, eppure si accolse con infinita gioia la mia vocazione». Ci racconti il suo approccio con la vita religiosa... «C’è poco da dire. Sono entrato in seminario a Lodi a 12 anni di età, vescovo era monsignor Pietro Calchi Novati, persona molto buona avvolta da autentica sacralità. Gli anni successivi vennero però dettati dal nuovo vescovo monsignor Benedetti, colui che mi ha consacrato. Pensi che la cerimonia avvenne in Duomo a Lodi nelle ore della mattinata di quel 12 giugno 1954 ed a mezzogiorno ero già a casa a Graffignana dove mi sono trovato a parlare con i giovani del mio paese, immerso già nelle funzioni di sacerdote, tale era il mio entusiasmo. Poi ho celebrato, come consuetudine, la mia prima messa nella chiesa del paese davanti ad una folla incredibile». Ci spieghi invece il suo stile di parroco... «Semplice, direi elementare: far incontrare le persone con il Signore. Grazie a Dio l’ho fatto sempre con spirito di dedizione, io amo dire con il cuore. E con il cuore ho sempre celebrato la messa: non ho mai predicato solo per “mestiere”. L’ho sempre fatto con gioia e devo dire che i fedeli restano colpiti da questo mio approccio. Mi dicono “si senteche lei ci crede”: la gente vuole sentire il cuore. Ho sempre accettato con serenità tutti gli incarichi che da Lodi mi venivano ordinati, anche se mi sono preso la licenza, come aggiunta, di fare solidarietà con i Lavoratori credenti». Ed eccoci, don Barbesta, al dunque: i Lavoratori credenti...«L’idea maturò nel 1974 quando decidemmo, con alcuni collaboratori, di dare vita al gruppo con il preciso scopo di tornare a far sentire la voce dei cattolici nelle fabbriche del Lodigiano. Andavo nelle fabbriche occupate eprendevo la parola durante gli scioperi. Mi vengono inmente vertenze sindacali storiche come quelle della Peruzzi diSomaglia, Goldaniga di Castiglione, Saffa e Denkavit di Casale, Gulf di Bertonico.Attenzione, non abbiamo mai voluto proporci come struttura sindacale od altro, ma come segno di solidarietà nello stile “siamo con voi, vogliamo aiutarvi”».Poi però nacque il desiderio di allargare quella solidarietà a situazioni nazionali ed internazionali...«Siamo nel 1976 ed il terremoto colpisce il Friuli: mobilitammo mezzo Lodigiano dando inizio ai campi di lavoro che sono durati per tre estati, stringendo con la comunità di Billerio un rapporto straordinario che dura anche oggi. Però voglio aggiungere i tantissimi momenti di studio e preghiera sulla Sacra Scrittura, momenti di ricerca storica sull’impegno sociale dei cattolici e sul magistero sociale della Chiesa con tanti relatori d’eccezione». Ma eccoci al grande legame stretto con la Polonia... «Vero. Si deve ad un gruppo di sindacalisti della Cisl, nostri amici, con i quali prendemmo contatto con Solidarnosc che era ancora clandestina. Coninciarono lì i famosi viaggi con i “Tir della Solidarietà” carichi di generi alimentari alla volta di Danzica e gli incontri con Lech Walesa, che nella Polonia libera sarebbe diventato presidente della Repubblica. Si moltiplicarono le raccolte di generi alimentari nel Lodigiano, che garantivano ogni volta il trasporto oltre le frontiere dei regimi comunisti di 45 quintali di generi di prima necessità. Non ci fermammo però alla Polonia, andammo anche in Romania, Bulgaria, Ucraina, nei Balcani. Pensi che un “Tir della Solidarietà” è arrivato a trasportare ad ogni viaggio fino a 320 quintali di aiuti. Poi venne la Bosnia e nei momenti cruciali degli aiuti a quest’ultimo Paese riuscimmo, pensi, a far partire dall’Italia addirittura un “Tir della Solidarietà” al mese». Poi venne la Palestina... «Siamo nell’autunno del 2001 quando nacque il ponte di solidarietà con la Palestina per aiutare i bambini di Betlemme. Lei mi chiederà dell’asilo di Jenin: io la classifico come una “follia positiva” e devo il progetto alle suore che operavano già sul posto e che hanno capito subito il senso dell’opera: dare un forte contributo alla pace tra quei popoli. La nostra scelta, un po’ scriteriata se vogliamo, fu quella di accogliere nell’asilo quelli che non potevano permettersi di pagare la retta. Furono subito 150 piccini tra arabi, ebrtei e cattolici. Vuole sapere una cosa? L’immagine più bella, tanto da inginocchiarsi e dire grazie a Dio, è che quella città, appunto Jenin, 60 mila abitanti, terza città della Palestina, con quell’asilo ha cambiato volto, in positivo naturalmente. Sì, ne andiamo fieri». Però non ci ha svelato il “mistero” della nascita di Jenin... «L’idea, lo confesso, venne a me quando una suora che già era operativa a Jenin mi parlò della situazione della città. Mi sono convinto che bisognava osare dove più marcato si manifesta il bisogno, aggiungo anche dove il male è più feroce. Suor Maria, si chiama così la religiosa che mi parlò della situazione, mi illustrò talmente bene la realtà che mi indusse senza induci a chiederle di portarmi a Jenin. Guardi che potremmo non ritornare, mi disse con molta onestà. Insomma, mi ha fatto il test psicologico ed io risposi: Lascerò i mieai compagni italiani di viaggio al sicuro, ma io ci voglio andare a Jenin. E siamo andati. Una volta arrivati in quella città tanto devastata da ogni sorta di guerre, suor Maria mi porta su un’area abbastanza larga dove c’erano le fosse comuni dei molti morti per azioni di guerra: roba da brivido, mi creda. Era uno spazio piuttosto ampio e numerosi bambini vi stavano giocando sopra, ai bordi c’erano carri armati ed altre armi, sotto di noi le fosse comuni. Lì è nato l’asilo di Jenin con la benedizione di Dio per la parte nostra di cattolici, una esperienza straordinaria, il classico granello di sabbia dal quale passa la pace di quel martoriato popolo. Abbiamo portato avanti una serie di mini progetti e micro realizzazioni tali da incentivare la ripresa della vita. L’ho già detto: Jenin ha già cambiato il suo volto». Don Barbesta, roba da Nobel per la pace... «Non esageri: a noi basta che la struttura funzioni a pieno regime, grazie a quelle suore e a quanti si prestano per farla funzionare, ma pure per far funzionare anche tutti gli altri progetti. Noi siamo impegnati costantemente su tutti i fronti, ma ora le confesso che sono fortemente preoccupato della situazione del mondo del lavoro nel nostro Paese, naturalmente con riferimento in particolare al Lodigiano. La crisi sta schiantando le fabbriche e, con esse, le famiglie dei dipendenti. Un mondo del lavoro ammalato, agonizzante. Bisogna fare qualcosa, per quanto ovviamente ci compete come Lavoratori credenti, nella speranza di coinvolgere un gran numero di istituzioni e di persone di buona volontà. Noi ci mettiamo coraggio, ardimento e voglia di fare, tentando l’inosabile mediante la concretezza». Insomma, don Peppino e i Lavoratori credenti non demordono. E come recita un libretto scritto a più voci in occasione del 50° di sacerdozio del religioso, tutti i militanti hanno in comune una caratteristica coniata dal loro leader: «Siamo gente che torna».

 

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